Un’epoca di lutti: approcci psicologici

Premessa

Viviamo in un’epoca di lutti più o meno difficili da eleborare e forse vale la pena rifletterci tutti insieme.

Ho partecipato il 25 Marzo  scorso ad un Convegno dell’Università La Sapienza  di Roma sul lutto dei genitori che hanno perso un figlio (li hanno chiamati “defigliati”, invece che “orfani” di figlio”, come si potrebbe più tradizionalmente).

Una parte di questi lutti, soprattutto quelli traumatici (morte per omicidio, per suicidio, morte in guerra, morte per malattie gravi, etc.), tendono a complicarsi e ad essere classificati nel manuale americano dei disturbi psichiatrici (DSM V) come “lutto persistente e complicato” oppure soltanto (è l’ultima versione) come “lutto prolungato”. Questa classificazione che ora viene eseguita anche nel nostro paese e con la quale sono apparsi in linea gli organizzatori del convegno romano, mostra come tenda a prevalere, coerentemente con la “psicologia biologica” (o cognitivo-comportamentale) oggi dominante nel panorama internazionale, l’approccio psichiatrico al lutto secondo il quale i suoi “sintomi” sarebbero da considerare una specie di “disturbi psichiatrici” appunto.

Si tratta di un approccio scientifico prevalentemente descrittivo e statistico che tende a medicalizzare l’esperienza del lutto trasformandola in una specie di “malattia” con la sua diagnosi, le sue indicazioni terapeutiche e la sua prognosi.

Secondo i critici di questo approccio (soprattutto psicologi delle scuole psicoanalitiche o che si ispirano all’approccio umanistico esistenziale o a qualche psicologia filosofica) vengono oscurate in maggiore o minore misura : I) le caratteristiche individuali del lutto per cui ogni caso è un caso a sé riducendo in  tal modo  l’importanza della psicologia del lutto a scapito della psichiatria del lutto; II) i fattori sociali, culturali e spirituali dell’esperienza del lutto vengono considerate variabili di contesto rispetto al fenomeno prettamente psichiatrico del lutto stesso.

Pubblichiamo di seguito per approfondire la tematica, due interventi: I) l’articolo  di Sarantis Thanopulos , ( il Manifesto  sabato 26 marzo 2022) Autore di un libro sul lutto (Il desiderio che ama il lutto, Quodlibet) e molto critico rispetto all’approccio psichiatrico al lutto; II) l’intervento che ho letto al convegno romano di cui sopra che illustra un approccio al lutto che tende a integrare senza far prevalere nessuno dei due approcci l’approccio psicologico e quello psichiatrico senza trascurare la dimensione spirituale.

Francesco Campione

Una madre perde un figlio: teoria e clinica di un lutto con tutte le complicazioni

Quando il legame tra le persone amate va in crisi  a causa della morte di qualcuno di loro,si determina la condizione esistenziale che chiamiamo lutto(bereavement) e si innesca un processo più o meno lungo e dagli esisti molteplici(mourning) accompagnato da una particolare sofferenza emotiva(grief).

Cercherò di mostrare come un particolare approccio clinico al lutto possa contribuire alla formulazione di una teoria del lutto e delle sue vie di risoluzione.

Il mio lavoro così come si è sviluppato nella clinica, nel confronto con i colleghi( IWG) e nelle riflessioni contenute nei miei scritti(Dialoghi sulla morte, Clueb , Bologna,Lutto e desiderio, Armando, Roma; La domanda che vola, Dehoniane Bologna ),ha alcune premesse fondamentali che espliciterò subito.

I premessa

Il lutto si risolve spontaneamente in un tempo variabile nella maggior parte dei casi seguendo quella che è stata indicata  come una “traiettoria di resilienza”.In una minoranza di casi invece il lutto persiste e si complica con maggiore o minore gravità fino poter essere classificato  come “Lutto persistente e complicato” secondo la  nota proposta del DSMV( Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, R. Cortina Editore, Milano).

Ma perchè un lutto persiste e si complica?A questa domanda si tende a rispondere pressappoco così: tendono a complicarsi più facilmente i lutti determinati da morti traumatiche, cioè da morti inaspettate e violente.L’omicidio, il suicidio, gli incidenti stradali, la guerra, le malattie letali acute o le catastrofi in genere sono la cause in cima alla lista, ma altrettanto traumatica può essere la morte di  un genitore per un bambino e quella di un figlio per una madre o per un padre. Nella mia esperienza pluridecennale il lutto che tende a complicarsi maggiormente(ma più o meno a seconda dell’età del figlio) è quello di una madre che perde un figlio.

Ma non basta , perchè un lutto si complichi, che sia traumatica la sua causa ,vale a dire che la complicazione non dipende soltanto dal trauma della morte.Dalla clinica ho tratto la seguente convinzione:se il lutto è traumatico è più probabile che esso si complichi, ma ciò  dipende anche dal particolare legame affettivo che il trauma spezza o mette in crisi, dato che ad un particolare legame corrisponde una diversa elaborazione psicologica del lutto.

II premessa

Molto in breve quello che chiamiamo “legame affettivo” e che va in crisi nel lutto è sempre un intrecciarsi in vario grado in ogni legame affettivo particolare di tre diversi tipi di legame:

  1. Un legame di attaccamento, così come l’hanno studiato Bowlby (Attaccamento e perdita , Boringhieri) , la sua scuola e i suoi epigoni contemporanei (quasi tutti gli studiosi attuali del lutto che si rifanno alla psicologia cognitivo-comportamentale e sistemico.relazionale)è un legame di adattamento che quando si spezza mette capo ad un processo di distacco e di riadattamento sostitutivo del legame stesso e che viene complicato dalla morte traumatica rendendo più difficile il distacco e la sostituzione del legame stesso.Si tratta di un legame biologico simile a quello tra gli animali ,che altrove ho indicato nel suo lutto come “via dell’energia vitale anonima”: consistendo nel legarsi dell’energia vitale in modo anonimo a chi soddisfa  i bisogni biologici allo scopo di conseguire un buon adattamento.La formula  che ho proposto per descrivere questa modalità di legame è: ama il prossimo tuo pensando a  te  stesso;
  2. Un legame di assimilazione o “amore oggettuale”,teorizzato da Freud (Lutto e melanconia, Opere, Boringhieri) e dalla psicoanalisi che consiste nel portarsi dentro l’oggetto d’amore facendolo diventare una parte di sè,e che quando si spezza mette capo ad un processo tendente a trasformare l’assenza esterna in una presenza interna o in una presenza in qualche aldilà, processo che la morte traumatica può ostacolare a causa dei sentimenti di rabbia e colpa che suscita.Si tratta di un legame personale che ho indicato nel suo  lutto come “Via della Tomba”,dato che il lutto si elabora quando si spezza un legame di questo tipo sentendo il morto come simbolicamente vivo nel proprio cuore o immaginandoselo vivo nell’aldilà perchè risorto grazie ad un Dio.Per descrivere questa modalità di legame ho proposto la formula” ama il prossimo tuo in quanto te stesso”;
  3. Un legame di approssimazione ( F. Campione, Perpatire, Armando Editore) basato sul desiderio dell’altro non sostituibile nè assimilabile a sè, che si ritrova quando la morte è traumatica a dover elaborare un lutto sfavorito dal non trovare più nel mondo esterno il destinatario dei propri desideri e dei doni che gli si offrono.Si tratta di un legame umano che nel suo lutto ho proposto di chiamare “via della trascendenza”, consistendo la sua elaborazione nel  “sostituirsi” al morto per continuare a desiderarlo disinteressatamente vivendo per lui-lei.La formula che ho proposto per indicare questa modalità di legame è:”ama il prossimo tuo in quanto se stesso”

Ogni legame e quindi anche il legame con un figlio è sempre una mescolanza di queste tre modalità di legame (attaccamento, assimilazione, approssimazione), ma con una prevalenza specifica in ogni caso particolare.

Significa che un figlio è sempre:

  1. Un altro staccato da me, un altro che ho con me e per me, un altro da nutrire essendone nutriti;
  2. Un altro che è parte di me, un altro che sono, che mi fa essere me stesso e diventa sè stesso attraverso di me;
  3. Un altro che non posso avere e che non sono ma di cui desidero il bene qualunque cosa sia, anche quando non ce l’ho con me e per me e anche quando non c’è; anche quando non è ancora nato e anche quando è già morto.

Un figlio è sempre tutto questo ma quale dimensione del legame prevale nel tempo?

E’ nel permanere di questo intreccio e nel mutare delle prevalenze che la crisi di un lutto può imboccare la sua specifica via di risoluzione.

Sulla base di queste premesse si può osservare che il fattore “morte traumatica” influenza l’elaborazione del lutto e la complica  in modo differente a seconda che il legame affettivo in crisi in ogni particolare lutto sia prevalentemente un legame di attaccamento, un legame di assimilazione o un legame di approssimazione.

Vediamo come stanno le cose e con quali conseguenze teoriche e cliniche nel caso che ora analizzerò nelle sue linee essenziali per lo scopo di questo lavoro.

G. è una Signora di poco più di 40 anni che ha perso il figlio S.(9 anni) per una leucemia che non si è riusciti a curare. Il lutto è chiaramente “persistente e complicato” dato che dopo 12 mesi sono presenti i principali criteri per classificarlo in tal modo:

rifiuto della morte del figlio;

persistenza di un enorme strazio per la mancanza del figlio perduto;

profonda disperazione che mette a rischio il desiderio di vivere suscitando un forte desiderio di morire della madre per riunirsi al figlio morto;

profonda preoccupazione per il destino  di S.(dov’è andato S. morendo?);

profonda difficoltà a volgersi ai ricordi positivi della vita col figlio;

profondo senso di colpa per non aver salvato il figlio e per essergli sopravvissuta, con relativa perdita del senso del proprio valore;

profondo senso di ingiustizia e di rabbia per la perdita del figlio;

profondo senso di solitudine e di invidia verso le altre mamme che hanno i figli ancora vivi;

profonda sfiducia nella possibilità che gli altri possano capirla nel suo dolore e aiutarla;

profondo senso di vuoto e di perdita di senso della vita;

profonda sfiducia nel futuro con relativa presenza di fasi depressive;

compromissione del funzionamento sociale ed esistenziale(problemi sul lavoro e nella relazione col marito).

Ma come ha cercato G. di far fronte a tutto questo? E quali indizi se ne possono trarre per capire in quale intreccio le modalità di legame col figlio sono presenti in modo da orientare l’intervento psicologico in senso idiopatico e senza ingiustificate  forzature ?

Finita la fase di angosciata incredulità, nei momenti di più profonda disperazione la tentazione della madre è stata di distaccarsi dal figlio morto per non morire a propria volta di dolore e poter riprovare a sentire l’amore per un figlio prendendo in affidamento un altro bambino.Il pensiero è stato pressappoco questo:”Devo cercare di non pensarci e piano piano dimenticare, così potrò rispondere alle richieste d’amore di un altro bambino e tornare come prima”.

E’ un chiaro indizio della modalità di legame che abbiamo indicato come “modalità di attaccamento” caratterizzata propriamente dal poter elaborare il lutto sostituendo il caro perduto in  quanto l’energia vitale è anonima e può trasferirsi da un figlio ad un altro, da un amore ad un altro.

G. allora ha tentato di prendere in affidamento un bambino e tutte le volte che c’è riuscita è stata un pò meglio ma subito dopo si è sentita straziata dal senso di colpa:non equivaleva forse, staccarsi dal figlio e dimenticarlo per non soffrire la mancanza e poi soddisfare nuovamente il suo bisogno di essere madre,a tradire e ad abbandonare il figlio suo? E così si è detta con strazio:”Non posso sostituire il mio bambino con un altro, mi sento troppo in colpa”.E subito le è salito alla mente il lamento classico delle madri che perdono un figlio:”Non doveva succedere!Mio figlio non doveva morire!”

Che fare? Si può ribaltare il destino e far tornare un figlio dalla morte?Se hai fede e pensi che un giorno tutti risorgeremo, puoi sperare che un giorno lo incontrerai nuovamente in qualche modo o in qualche forma. C’è chi suggerisce alle madri disperate per la perdita di un figlio che i bambini morti diventano subito angeli e proteggono dall’alto ,o chi dice loro che i morti vivono in un’altra dimensione e con l’aiuto di buone guide ci si può mettere in contatto con loro.Ma G, non ha fede nella resurrezione nè crede che i morti siano “altrimenti vivi” e non può contare su queste risorse di “fede”.

Nel suo cuore però il figlio morto lo sente sempre presente e allora ha provato a dirsi che è questo il modo S. di non morire:vivere nel cuore di sua madre!

Purtroppo però non le è bastato perchè non avrebbe più potuto incontrare il figlio  nella realtà esterna:”Ci riuscirei a farmi bastare che S. è vivo dentro di me se non dovessi rinunciare a vederlo e ad abbracciarlo.Ci riuscirei se non incontrassi le mamme dei compagni di mio figlio con i loro bambini vivi e vegeti e non mi montasse una rabbia esplosiva e un’invidia velenosa”.

G. è stretta tra due impossibilità e non sa come uscirne:potrebbe distaccarsi dal figlio morto e attaccarsi ad un altro bambino che la potrebbe scegliere come madre ma si sente in colpa per dover abbandonare suo figlio all’oblio; potrebbe certo far vivere suo figlio dentro di sè come parte di sè ma la rabbia di constatare che  solo a lei è impedito di abbracciare il suo bambino come le altre mamme continuano a fare glielo impedisce.

Il legame di G  con il figlio S. è un intreccio di attaccamento e di assimilazione che sembrano avere pari forza e non le danno vie d’uscita facendola oscillare tra due modalità di elaborazione altrettanto problematiche.

Ma dov’è finita la modalità di elaborazione del lutto che abbiamo chiamato “approssimazione” e che secondo la premessa teorica dovrebbe essere presente anch’essa  nell’intreccio del legame di G. con il figlio ? Non sarà proprio nella dimensione dell’approssimazione apparentemente inesistente che si può trovare la via della risoluzione del lutto di G.?

G. è stretta tra Niobe e Demetra senza poter essere Maria di Nazareth.Le soluzioni che la nostra cultura suggerisce a una madre che ha perso un figlio sono impersonate da due figure centrali della mitologia greca(Niobe e Demetra, appunto) e dalla “vergine madre figlia del suo figlio” figura centrale del Cristianesimo.

Niobe è la madre di 14 figli di cui gli Dei puniscono l’orgoglio per essersi sentita più madre della Dea Latona che ha generato solo due figli sebbene divini,Artemide e Apollo,al punto che gli uomini hanno cominciato ad adorare più lei che la Dea.La punizione di Giove,richiesta dalla stessa Niobe, consiste nel trasformarla in una roccia da cui sgorgherà una sorgente(forse di lacrime perenni).E non è lo stesso destino che G. ha temuto di dover incontrare staccandosi dal figlio morto per non morire di dolore? Essere condannata a diventare di pietra, cioè insensibile al dolore per la perdita del figlio ma sapendo di non poter smettere di piangere?

Demetra,pur essendo la Dea della Terra subisce il rapimento della figlia Core(o Persefone) da parte del più potente Dio Plutone, che regna sull’Ade, il regno dei morti. Demetra  come tutte le madri rifiuta la morte ingiusta della figlia e per convincere Giove a farsi aiutare a far tornare in vita Persefone rende la Terra un deserto in modo che gli uomini non abbiano più niente da sacrificare agli Dei disconoscendone il culto. Giove allora raggiunge un accordo col fratello Plutone: Persefone tornerà nel mondo dei vivi per metà dell’anno in modo che Demetra faccia tornare la Terra feconda almeno in primavera e in estate.E non è simile al compromesso che si propone a G.allorchè intuisce che può far vivere il figlio morto dentro di sè(la via della Tomba!) a patto che rinunci a vederlo e ad abbracciarlo nella realtà esterna? Non potrebbe il mito dell’alternanza vita- morte di Persefone richiamare la compresenza di vita e morte  di chi fa vivere i morti dentro di sè ma può farlo solo se rinuncia a farli vivere fuori di sè?

E poi c’è Maria che avendo messo al mondo il figlio di un Dio sa che risorgerà e quando muore sa come superare la sua disperazione: prega per avere in grembo il figlio morto, come indicano le posture delle Pietà  alludendo alla possibilità che la morte sarà una rinascita grazie al Padre e tramite un altro passaggio nel grembo materno.

G.,nonostante che possa ,grazie alla dimensione di assimilazione del suo legame col figlio, farlo vivere nel suo cuore, non può essere come Maria.Perchè non l’ha messo al mondo per obbedire ad un annuncio divino,l’ha messo al mondo ,l’ha desiderato(lo dichiara esplicitamente) per realizzare se stessa, per generare qualcuno da sè che andasse oltre sè,cioè da lasciare in vita dopo la propria morte allo scopo di essere ancora in vita attraverso la continuità della famiglia.G. infatti dice di aver sempre pensato che la morte di un figlio non è ingiusta in sè,ma che la morte del figlio è stata ingiusta in quanto prematura, l’essere morto prima di sua madre  e prima di poter a sua volta lasciare in vita un figlio suo.G. sapeva che il figlio sarebbe morto anche lui alla fine della sua vita ma non ha potuto sopportare  che sia morto non conformemente col suo desiderio di  far vivere qualcuno di “suo” dopo la propria morte.Ha messo al mondo il figlio per assicurarsi una forma di immortalità, per un bisogno di sopravvivenza dopo la morte.

 Ma come fa una madre che mette al mondo un figlio con questo desiderio ad essere sicura che metterà al mondo qualcuno che lo realizzerà?

G. non ha tenuto conto che una madre mette al mondo qualcuno di cui non si conosce il destino e quindi non si può pensare che realizzerà con certezza il desiderio per cui lo mette al mondo chi lo genera.Come accade nella stragrande maggioranza dei casi:non si tiene conto di questo “ignoto” che appare quando si mette al mondo un altro ,perchè, altrimenti, si dovrebbe ammettere che si genera un figlio senza sapere cosa si sta facendo,si genera un “mistero” che solo vivendo si chiarirà ma potrebbe non chiarirsi mai, come accade certamente quando un figlio muore prima di un genitore.

La morte di un figlio ci può “insegnare” che forse desiderare un figlio significa  desiderare un bene che non si conosce, un bene che nel desiderio è tale anche se potrà derivarne un male(come la sua perdita) e soprattutto che non si sa “cosa” sarà. Sembra tragico e lo è, ma al tempo stesso, ha una conseguenza che potrebbe far uscire una madre che ha perso un figlio dal vicolo cieco nel quale abbiamo visto essersi cacciata G.

Significa che oltre a quelle prospettate da Niobe, Demetra e Maria, c’è un’altra alternativa che ancora non ha un nome che la personifichi, forse perchè l’Umanità non ha ancora codificato appieno questa sua straordinaria possibilità. Essa consiste, per una madre nel continuare a desiderare il figlio che non c’è più non aspettandosi niente da lui, come avrebbe dovuto desiderarlo e come forse l’ha già desiderato  prima che nascesse se si fosse assunta la responsabilità del fatto che sempre si mette al mondo un figlio che non si sa chi sarà, quale sarà il suo destino e se corrisponderà o meno ai  desideri di chi lo genera.

Come una madre dovrebbe o come ha già desiderato il figlio prima di nascere, senza sapere cosa aspettarsi,senza aspettarsi niente in cambio(cioè disinteressatamente), un figlio si può continuare a desiderare disinteressatamente anche da morto.

Dopo tre anni di terapia ho potuto  prospettare a G. questa possibilità con queste parole:”La soluzione potrebbe essere continuare a voler bene a S. senza aspettarsi niente in cambio.In tal modo vivrebbe tramite la madre che non dovrebbe più nè cercare di sostituirlo nè doversi accontentare di averlo vivo solo nel cuore”-

“Così” ha risposto G. “ sarebbe volergli bene come gli volevo bene prima che nascesse.Ma poi è nato ed è anche morto. Non so se riesco a voler bene senza volere niente in cambio”.

“Se ha messo al mondo S. come “mistero” cioè desiderandolo disinteressatamente come bene a prescindere dal sapere cosa produrrà la sua vita” ,ho ribattuto, “ora che è morto  potrà continuare a desiderarlo nello stesso modo, rendendo così ‘misteriosa’ anche la morte e potendo così desiderare, per lui che non c’è più ,tutto il “bene” del volergli bene, a prescindere che sia niente, un’altra vita o qualunque altra cosa indicibile”.

Questa conversazione con altre parole e in una specie di corpo a corpo con G. si è ripetuta e si sta continuando a  ripetersi conferendo una specie di orizzonte   alla crisi del suo lutto complicato anche se sembra andare all’infinito.

Per fortuna un giorno G. ha detto.”Non capisco e forse non capirò mai questo amore disinteressato che dovrebbe risolvere il mio lutto.Però intuisco che sarebbe bello se riuscissi ad amare mio figlio in questo modo anche da morto”.

La dimensione del legame di approssimazione ha fatto questo punto  capolino indicando la necessità di una sua prevalenza sulla dimensione dell’attaccamento e su quella dell’assimilazione, perchè un lutto così complicato come quello di una madre che perde un figlio possa avere una prospettiva di risoluzione.

Forse ha ragione Derrida quando nell’elogio funebre di E. Levinas sostiene che nessun lutto si risolve mai, a maggior ragione, potremmo aggiungere, quando si tratta del lutto di una madre che ha perso un figlio.Tuttavia, come abbiamo visto, la possibilità dell’amore disinteressato apre un orizzonte di fronte all’impossibile: se nessuno può fare a meno di un figlio perduto e nessun tentativo di sostituirlo o di farlo sopravvivere in qualche modo può mai riuscire del tutto, solo il mistero aperto dal desiderio disinteressato davanti alla morte può far sì che di fronte al “mai possibile” del lutto(la vita è finita e i morti non sono sostituibili e non risorgeranno) ci sia per l’uomo la possibilità del “sempre desiderabile”:la vita è finita, i morti non sono sostituibili e non risorgeranno, ma continuando a volergli bene disinteressatamente si vive qualcosa che va al di là dell’essere e del non essere e al di la della vita stessa.Si tratta del desiderio di un Bene infinito (E. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book) forse antecedente alla vita stessa(il bene che si vuole a chi non è ancora nato  e che ciascuno eredita con essa nascendo),e che si può nutrire volendo bene a coloro che non ci sono più e così facendoli ancora vivere attraverso chi non smette di amarli.

Un pensiero su “Un’epoca di lutti: approcci psicologici

  1. Grazie Prof. per questo suo contributo che sollecita una considerazione da parte mia.

    Io vedo il legame di approssimazione o di prossimità come un legame debole, instabile, simile alle interazioni elettromagnetiche tra gli atomi. Esso è sempre presente nelle relazioni interumane ed costitutivo della trama che ci unisce. Mantiene la giusta separatezza tra gli individui (che sono indivisibili come gli atomi) ma allo stesso tempo li tiene uniti come un’amalgama. Quando una persona cara scompare il legame non si interrompe, anzi può accadere che si rafforzi. Il lavoro del lutto consisterebbe nel tentativo di prolungare questo legame alla ricerca di una connessione con l’invisibile e con l’assenza del morto, mediata dalle presenze visibili (immagini, ricordi) nella vita di chi resta. Il negativo della morte può rafforzare il positivo della vita perché in fondo la vita e la morte appartengono ad unico processo chiamato vivere. E questo processo è costantemente costellato di perdite.

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